Il settore farmaceutico esce provato dalle manovre finanziarie di quest'anno, dalle problematiche sistemiche della Sanità italiana e dall'andamento generale dell'economia. Recentemente il Presidente di Farmindustria Massimo Scaccabarozzi ha lanciato un chiaro allarme in tal senso, rimarcando che la crisi degli ultimi anni ha determinato una perdita di circa 8.000 posti di lavoro nel settore, richiedendo di "potenziare gli incentivi alla ricerca, premiare l'innovazione e strutturare un adeguato credito d'imposta alla ricerca", perché ha rivelato "ci sono aziende anche importanti che stanno pensando seriamente di delocalizzare", con ulteriori possibili conseguenze sull'occupazione nel settore.
All'interno di questo scenario, vogliamo capire quali sono le prospettive e le progettualità concrete di una realtà tutta italiana come il Gruppo Dompé. Ne parliamo con l'Amministratore Delegato, il Dott. Eugenio Aringhieri.
D: Quali sono le principali sfide del settore farmaceutico nella prospettiva del Gruppo Dompé?
Quando nel 2007 mi è stata affidata la responsabilità operativa del Gruppo, abbiamo definito un piano strategico per affrontare i trend che all'epoca si intravedevano all'orizzonte e che oggi si sono trasformati in sfide reali per il settore. Nello specifico:
1) La scadenza dei brevetti (85 miliardi di fatturato in meno per il settore dal 2009 al 2015), che ha dato avvio al "secondo tempo della partita", essendo finito il tempo dei blockbusters.
2) Il progressivo calo di produttività dell'R&D che, dunque, non potrà compensare la perdita di fatturato legata alla scadenza dei brevetti.
3) Il trend positivo delle biotecnologie, che negli ultimi anni hanno permesso di offrire risposte a domande di cura rimaste ancora aperte risposte il settore delle biotecnologie, inoltre, ha dimostrato che è molto più importante il "saper fare" che la dimensione: creare network di eccellenze diventa l'elemento vincente per portare a compimento i progetti di Ricerca in maniera efficace ed efficiente. Accreditarsi ed essere parte attiva di un network di ricerca in cui ciascun partner riesca a portare un contributo specifico nel processo diventa un fattore più importante della dimensione aziendale.
4) Le "geografie": nei prossimi 5 anni per le cosiddette economie avanzate è prevista una crescita media del 1% (anzi alcune dovranno fronteggiare cali, come verosimilmente l'Italia), mentre per le economie emergenti, a partire dai BRICs, è prevista una crescita a doppia cifra, che potrebbe offrire nuovi spazi di crescita ed opportunità.
Letto in questo scenario evolutivo, possiamo dire che "avevamo imparato a fare un mestiere che non sarebbe servito più", essendo cambiate le opportunità di crescita future, per dimensioni, modalità di ricerca e territori.
D: Come sta cambiando la sua organizzazione per adeguarsi ai cambiamenti dello scenario?
Le risposte delle aziende a questo cambio di paradigma sono state differenti: fusioni, acquisizioni e vendite, in funzione delle dimensioni. In Dompé abbiamo cercato una soluzione intermedia, figlia anche del nostro posizionamento, che ci permettesse di massimizzare l'esperienza maturata nei tanti anni di collaborazione con imprese biofarmaceutiche globali - quali ad esempio Amgen e Biogen Idec - e nel contempo, ci permettesse di definire un progetto evolutivo coerente con le dinamiche competitive del settore farmaceutico precedentemente richiamate.
Sapevamo in particolare, per le riflessioni già condivise, che i due punti di forza del momento: la solidità della Primary Care (che ci "aveva portato nelle case degli italiani") e le alleanze con due aziende biotech di punta (Biogen e Amgen), prospetticamente si sarebbero potuti trasformare in elementi di debolezza. La genericizzazione rappresentava una minaccia per il settore Primary; la strategia delle alleanze era minacciata da una progressiva perdita dei profitti.
Inoltre, seppur forti della nostra identità nazionale, eravamo consapevoli di essere esposti ad un rischio legato allo scenario complesso del Paese. Un rischio legato anche al fatto che, non avevamo in quegli anni un piano di R&D che potesse garantire un piano di crescita stabile.
D: Quali le strategie e i progetti del Gruppo per affrontare tale scenario?
Per far fronte a questo scenario, il nostro piano di crescita si è basato sui punti di forza del Gruppo.
Per quanto riguarda la Primary Care potevamo puntare su un listino forte, accreditato anche grazie ad un Brand aziendale riconosciuto nel Paese. Abbiamo quindi lavorato su due elementi:
Innanzitutto abbiamo focalizzato l'attenzione non solo sul MMG, ma su tutti gli attori del sistema. Abbiamo portato gli informatori da 217 a 156 e delegato il presidio del farmacista a una realtà esterna specializzata sul target farmacisti, trattandoli come operatori sanitari. Più recentemente, abbiamo voluto garantire un nuovo modello organizzativo che ponesse sempre più il Paziente al centro. Un'evoluzione che quindi coinvolge anche il nostro portafoglio prodotti con spostamenti dall'RX a OTC, per portarsi in un'arena competitiva dove il tema del generico si sente meno. Riducendo ulteriormente il numero di informatori a 131, stiamo adesso interiorizzando la linea farmacie, che ha dimostrato nel frattempo la sua efficacia.
Come seconda leva strategica, abbiamo avviato - consapevoli delle nostre dimensioni- un processo di arricchimento del portafoglio prodotti, attraverso un approccio di "better usage". Lavoriamo quindi su una technology R&D, per un miglior impiego dei farmaci, che ci consente di avere un'alta frequenza di lancio di prodotti a bassa innovazione: formulazioni orosolubili, monodose, ecc. Questo processo sta già producendo i propri frutti, fino al 2013 sono già assicurati lanci costanti e stiamo lavorando al 2014.
Tornando al fronte biotecnologie, sapendo che la strategia delle alleanze non avrebbe espresso il suo valore indefinitamente, abbiamo scelto di cambiare approccio prima che emergessero le criticità, decidendo di generare in modo autonomo innovazione. In due modi: abbiamo rivisto i piani di ricerca rifocalizzandoci sulle nostre competenze distintive, quindi scelto il campo di gioco dove potevamo giocare la partita ed esprimere le nostre competenze distintive. Le malattie rare, l'oftalmologia e l'oncologia, rappresentano infatti aree che per concorrenza, barriere all'ingresso e domande di salute ancora aperte possono offrire importanti opportunità. Abbiamo quindi "dato gambe" alla nostra ricerca, ottimizzando i processi, e dall'altro facendo acquisizioni per irrobustire la pipeline.
Forse solo nel 2015 sapremo se il piano avrà successo o meno, l'elemento concreto oggi è che nel 2012 partiremo con 22 studi clinici internazionali nelle diverse aree terapeutiche, 65 centri nel mondo coinvolti nei progetti, di cui uno di fase III. Questo ci riempie d'orgoglio e di responsabilità e ci permette di "giocare la partita".
Abbiamo quindi risalito la catena del valore, partendo dalla ricerca e scegliendo l'area delle biotecnologie, acquisendo Anabasis, un'azienda biotech italiana che sviluppa farmaci innovativi a base di rhNGF (la cui scoperta ha valso il premio Nobel alla Professoressa Rita Levi Montalcini) per il trattamento di gravi patologie oculari attualmente prive di trattamenti efficaci.
Dal 2009 abbiamo inoltre scelto di investire in Philogen, un'azienda biotech italo-svizzera impegnata nello sviluppo di prodotti biofarmaceutici per il trattamento del cancro, dell'artrite reumatoide e di alcune patologie oculari.
Sulla produzione ci siamo presi dei rischi ma oggi siamo una biotech a tutti gli effetti, con investimenti nello stabilimento Dompé di L'Aquila, avendo aggiunto quindi un'ulteriore anello della catena del valore. L'obiettivo diventa quindi di arrivare alla commercializzazione nel 2015, con un ruolo e su una scala diversa da quella del 2007.
D: Quali le strategie del Gruppo Dompé per affrontare i trend economici internazionali?
Abbiamo chiuso nuovi accordi per garantire la presenza dei nostri prodotti Primary nelle economie emergenti: Russia e CIS countries. Puntiamo a Brasile e Cina, puntando anche ad un'eventuale presenza diretta. Siamo in Corea e Turchia. Peraltro la nostra vocazione internazionale è già evidente, se pensiamo che dei 65 centri coinvolti negli studi clinici, solo 5 sono in Italia.
Siamo convinti di poter "fare la gara", anche se il rischio è completamente diverso oggi: se prima rischiavamo di fare un po' di fatturato in meno o in più, ora il rischio è "zero-cento", o tutto o niente. Innegabilmente questo ci riempie di orgoglio e responsabilità, se ce la faremo, avremo raggiunto un traguardo che in Italia e in Europa è riuscito a pochi; se non ce la dovessimo fare, saremo comunque fieri di aver provato con serietà ed impegno ad individuare nuove risposte per bisogni di cura ad oggi insoddisfatti.
D: La scelta forte di mantenere la produzione in Italia, anche dopo il terremoto dell'Aquila, è ancora sostenibile? Quali le strategie del Gruppo per svilupparla e quali interventi di sistema sono necessari per evitare la delocalizzazione?
Noi crediamo tantissimo nel Paese, a partire dall'Azionista, ma è indiscutibile il rammarico nel percepire che il sistema oggi, pur avvertendo che l'innovazione è una variabile strategica per il Paese, non riesce a sostenerla. Gli investimenti nello stabilimento de L'Aquila sono stati fatti a prescindere dai finanziamenti, che non sappiamo se arriveranno mai. Ma soprattutto se avessimo scelto di attenderli non avremmo ancora ristrutturato dopo il terremoto. Ad oggi, non solo abbiamo garantito il piano revamping del sito dopo il sisma del 2009 ma abbiamo ulteriormente investito sul territorio aquilano per la realizzazione di un impianto biotecnologico per la produzione di NGF, che ha rappresentato finora una delle maggiori criticità affinché l'innovazione del NGF si trasformasse davvero in un'innovazione terapeutica. Avremmo bisogno di un Paese più forte, indiscutibilmente, ma a tutt'oggi non riesco a vedere una chiara sensibilità delle istituzioni nel sostenere chi davvero si assume il rischio di fare innovazione e ricerca arricchendo la competitività del Paese.
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